mercoledì 5 agosto 2015

Un borghese piccolo piccolo

   "Un borghese piccolo piccolo", film del 1977, è sicuramente una delle meglio riuscite interpretazioni di Alberto Sordi, a detta di molti la migliore. Si tratta di un Sordi diverso dal solito, impegnato in questo film in un ruolo drammatico. È pur vero che moltissime delle commedie da lui interpretate hanno un retrogusto amaro, com'è consuetudine nella migliore commedia all'italiana, ma probabilmente l’attore romano non si era mai cimentato in un ruolo così carico di vere e proprie tragedie umane.
Lo stesso dicasi per il regista, Mario Monicelli, che con questa pellicola segna un punto di svolta nel suo cinema ed in generale in tutto il cinema italiano.


   Giovanni Vivaldi (Alberto Sordi) è un impiegato ministeriale ormai prossimo alla pensione. Ha sempre lavorato per la famigliaed ora, nell'epilogo della sua carriera, ha seriamente intenzione di sistemare il figlio al ministero, per avviarlo ad un brillante futuro nei luoghi dove egli, per più di vent'anni, aveva lavorato.
   Mario Vivaldi (Vincenzo Crocitti), il giovane neo-ragioniere figlio di Giovanni, non è un ragazzo particolarmente sveglio o di talento. E, forse anche per questo, il padre è fortemente deciso a “sistemarlo”: inizia quindi a corteggiare in maniera serrata i suoi superiori in ufficio al fine di far superare a Mario l’imminente concorso per l’assunzione al ministero. 
È un concorso che non lascia molte speranze, poiché sono previste pochissime assunzioni su un numero di candidati enorme. Proprio per questo Vivaldi è più determinato che mai. Fra i suoi superiori c'è il capoufficio, il grottesco e laido Dott. Spaziani (Romolo Valli), il quale gli consiglia vivamente di fare come lui, di diventare massone, poiché in quell'ambiente - popolato da molti dipendenti di quel ministero - ci si scambiano tranquillamente piccoli e grandi favori.
Far entrare Mario al ministero sarebbe diventato quindi un gioco da ragazzi, se fra i contatti di Giovanni vi fossero stati eccellenti membri della loggia ministeriale.
Amalia (Shelley Winters), ovvero la religiosissima ed ansiosa moglie di Giovanni, è perplessa dalla inquietante impalcatura che il marito ha messo in piedi, ma ciò nonostante asseconda il suo disegno, consapevole anch'ella che il futuro del figlio vada messo davanti a tutto e tutti.



   Ogni cosa sembra infatti andare per il meglio: dopo aver ricevuto l'iniziazione ed essere quindi diventato "fratello" a tutti effetti, Giovanni ottiene il testo del tema scritto che dovrà essere sottoposto ai candidati al concorso ed inizia quindi, a preparare il figlio Mario per passare la prova. 

   È tutto pronto, il giorno del concorso è finalmente arrivato. È un'alba come tante altre, in uno degli innumerevoli grigi appartamenti di fantozziana memoria che si affacciano sulla sopraelevata della tangenziale est di Roma.

Padre e figlio si stanno recando al ministero per la prova scritta. Qualche occhiata lanciata da Mario ad una bella ragazza in metropolitana, sotto il vigile occhio del padre-tutore, bastano forse a Giovanni per fantasticare sul figlio sposato, magari con qualche bel nipotino. Ed il quadretto familiare sarebbe stato così completato con successo.
Era il suo prossimo compito di laborioso pensionato, ma in fondo l'importante era prima sistemare Mario con un posto di lavoro sicuro, poi il resto sarebbe venuto da sè.

Il film, se non fosse stato per la breve durata, sarebbe potuto tranquillamente finire qui. La satira coniugata ad elementi drammatici c'è, il divertimento anche.
Ed invece, quando meno ce lo aspettiamo, quando la nostra empatia è sintonizzata e sincronizzata con le gesta truffaldine ma in fondo divertenti di questa famigliola "media" di fine anni Settanta, ecco che Vincenzo Cerami e Mario Monicelli ci confezionano una "bella sorpresa", che metterà in discussione ogni idea o conclusione alla quale eravamo giunti nel frattempo. Ed anche Giovanni, di fatto, in un modo o nell'altro sarà costretto a rimodulare e ripensare il senso della sua vita.



Questo film è, a detta di alcuni, il testamento di quel genere cinematografico che conosciamo come "commedia all'italiana". In un certo senso rappresenta uno dei film chiave che sancisce la inesorabile trasformazione del genere, già iniziata qualche anno prima con pellicole del calibro di "Amici miei". 
In effetti, il Borghese può essere diviso in due parti. La prima, che precede l'arrivo di Giovanni e Mario alla sede del concorso, sembra rispecchiare appieno i meccanismi classici della commedia messa a punto negli anni da Monicelli, Risi e molti altri; sono magistrali, ad esempio, le sequenze che vedono insieme Alberto Sordi e Romolo Valli (il capoufficio Dott. Spaziani), il quale guiderà Vivaldi nel rito di affiliazione alla loggia massonica ministeriale.

La seconda parte rappresenta qualcosa di totalmente diverso. Quei personaggi che nella prima parte si muovevano agilmente sulla sottile linea che divide il comico dal tragico, facendo risaltare i propri grotteschi difetti, ora cadono nel limbo di una tragedia totale - della quale volutamente omettiamo di parlare - e dalla quale sembra impossibile sfuggire. L'incedere prepotente di questa sorta di "secondo atto", coincide con una svolta nella vita di Giovanni Vivaldi, così come complessivamente nella maniera italiana di fare commedia. 
I difetti e le sfumature di quel microcosmo di personaggi prima divertivano; ora, gli stessi identici aspetti negativi, in un contesto ben diverso, danno la nausea, disorientano. Quella compagnia di nobili e grottesche maschere ora non è altro che un viscido e gelatinoso brulicare di parassiti e di mostri.
   Proprio quando quel padre è convinto di aver sistemato il figlio (in modo disonesto e meschino, mettendolo in guardia dalla "concorrenza" e proiettandolo in una guerra che il giovane non sembra così convinto di voler combattere), quando è a un passo dalla sublimazione della sua figura di capo famiglia, ecco che lì, in quel momento, il "destino" prende il sopravvento, ribaltando le sue piccole grandi certezze.
Se vi state insistentemente chiedendo cosa mai potrà accadere in questa "seconda parte", non dovete far altro che guardare il film.


   Nel valutare il personaggio interpretato da Sordi si potrebbe indulgere nel considerarlo una vittima del sistema, una persona che agisce solo per il bene del figlio; un uomo che sfrutta creativamente i meccanismi che il sistema gli mette a disposizione ma che nel suo profondo è mosso solo da sentimenti positivi. Ecco che infatti, istintivamente, egli cattura la simpatia dello spettatore, anche quando intrallazza e corrompe, quando si finge un devoto e convinto massone o quando sfrutta le sue amicizie per fini personali.
   "Fatti furbo", "molti nemici, molto onore", ripete però il padre al figlio, sparlando dei colleghi dell'ufficio ed insultandoli alle loro spalle, spronando il ragazzo ad annientare gli avversari che avrebbe trovato sul suo cammino verso il successo personale. Quello stesso padre che quando ne ha voglia e "fantasia" tratta la moglie come un oggetto, spingendo il figlio a fare altrettanto, ma che la loda teneramente per aver preparato un eccellente caffè.
   Tutte queste sfumature sono magistralmente messe insieme così da rendere il realismo di un personaggio plausibile, credibile. Come tutti i personaggi "veri", non è né un manuale di positività, né di negatività. È un'entità complessa che ci può apparire più o meno positiva/negativa, ma che sicuramente potrebbe essere un nostro vicino di casa.

   Il 1977, anno di produzione di questo film, non fu particolarmente denso di film italiani memorabili.
Ma, su tutti, è l'anno del film a episodi "I nuovi mostri", interpretato e diretto, fra gli altri, rispettivamente dagli stessi Sordi e Monicelli.
Questo film rappresenta il sequel ideale de "I mostri" del 1963. Le differenze fra i due film forniscono una precisa idea di quanto era cambiato nel frattempo, della strada senza uscita che aveva imboccato il cinema italiano. A differenza del suo predecessore, infatti, ai "I nuovi mostri" manca quello spirito che invitava a non prendersi troppo sul serio e a ridere dei vizi degli italiani. "I mostri", infatti, pur offrendo una satira sociale e di costume molto marcata, a tratti feroce e tagliente, è comunque un prodotto genuino del boom economico. 
"I nuovi mostri", quattordici anni dopo, è invece il film della crisi, sociale ed economica. Chi fa cinema prende atto del fatto che non è più possibile fare satira con lo stesso piglio scanzonato. 
"Non c'è più niente da ridere", sembrano dire Monicelli, Risi e Scola, che nel giro di qualche anno celebreranno i funerali della commedia all'italiana così come era stata conosciuta dal dopoguerra. 

Forse non è un caso se l'ultimo episodio de "I nuovi mostri" si intitola proprio "L'elogio funebre"...


Jurij Nascimben




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