mercoledì 9 marzo 2016

L'ispettore Coliandro e l'arte dell'esser sempre uguali a se stessi.

Tutto ebbe inizio nel lontano 2006, quando sulle frequenze di Rai2 irruppe un giovane poliziotto fuori dal comune, lontano dagli ordinari stereotipi del crime drama; un ragazzo piuttosto sboccato ed imbranato, imbevuto di luoghi comuni e di cinema poliziesco, relegato a mansioni tutt'altro che d'azione o investigative il quale però risultava subito simpaticissimo e, malgrado le prese in giro dei colleghi "più intelligenti", riusciva sempre ad arrivare in fondo a complesse indagini nelle quali si trovava involontariamente coinvolto, il tutto sullo sfondo della Bologna di oggi.

Era con Il giorno del lupo, primo episodio della saga de L'ispettore Coliandro, che aveva inizio questa originale parodia di un uomo d'azione alla Callahan ma improbabile, fanfarone e maldestro, rivelando da una parte il talento del protagonista, Giampaolo Morelli, dall'altra la grande capacità narrativa di uno dei principali protagonisti della cultura italiana di oggi, Carlo Lucarelli, alla cui penna si deve la genesi del personaggio. E poi, chiaramente, la regia dei Manetti Bros, i quali riescono a dipingere in maniera convincente questo divertente ed anomalo poliziesco, fra rimandi al cinema di azione degli anni '70 e al poliziottesco italiano. 

 

Coliandro si ritrova coinvolto in ogni episodio in casi complessi e pericolosi, che cerca di affrontare scartabellando nel suo archivio di battute e di citazioni cinematografiche ("Coraggio, fatti ammazzare" è la sua preferita), ma, almeno sulle prime, è ben lungi dal mostrare la freddezza e il coraggio di un Eastwood alla Dirty Harry, piuttosto finisce spesso per sembrare il bambino che non ha calcolato le conseguenze mortali del suo gioco preferito. In ogni puntata vi è una protagonista femminile diversa, in qualche modo implicata nell'indagine, e che l'Ispettore tenta goffamente di proteggere o sfidare, rimanendo poi inevitabilmente implicato in una relazione sentimentale.

Fin qui, i presupposti per una serie interessante e di successo ci sono tutti. Le prime puntate di Coliandro, infatti, sono ben congegnate, divertenti e scorrevoli. La regia è all'altezza, il montaggio agile e veloce, le musiche strizzano l'occhio al funk della blaxploitation alla Shaft e Foxy Brown ed i camei sono divertenti ed inaspettati (Lucarelli, Neffa, Luca Carboni, solo per citarne alcuni). Ed in tutto ciò la città di Bologna si dimostra estremamente adatta alla narrazione.

Ma già dalla seconda-terza serie qualcosa inizia ad andare storto. Eppure gli ingredienti sono gli stessi, gli attori sono in gamba e collaudati, le storie ben strutturate. Cosa succede?
Già, il problema è proprio questo: gli ingredienti sono esattamente gli stessi.
Nessuna evoluzione del protagonista, sceneggiature sì diversificate ma con dinamiche ed interazione fra i personaggi pressoché identiche. Le storie, e a cascata la regia, iniziano non più a parlare al pubblico ma si incartano su se stesse, incapaci di sfuggire alla piaga della reiterazione.


Ora, tutte le serie di successo hanno fondato la loro credibilità sull'evoluzione dei personaggi, su una trasformazione che nel corso delle diverse puntate porta il protagonista (prima di tutti) ad essere soggetto ad un mutamento. Questa, più che essere caratteristica peculiare delle serie tv, è un meccanismo narrativo piuttosto universale che consente di produrre storie interessanti e credibili, siano esse serie tv, romanzi o film. Ma quando il personaggio, le ambientazioni,  rimangono immutate, ad ogni puntata si assiste ad un replay di qualcosa di già visto. 

Stiamo parlando, prima di tutto, di un problema nelle storie: forse gli sceneggiatori - fra cui lo stesso Lucarelli - hanno puntato sul principio "squadra che vince non si cambia", quindi a partire dal successo iniziale hanno deciso di "vincere facile" e di ripetere dinamiche e situazioni al fine di assicurarsi una riuscita sicura. Sicuramente legittimo. Ma più che un pubblico di affezionati, un simile approccio garantisce un pubblico sempre nuovo di persone che ad ogni serie scoprono il personaggio per la prima volta e ne rimangono piacevolmente sorpresi. Gli "affezionati" e chi ha scoperto il personaggio già all'uscita della prima serie (fra cui chi scrive) potrebbero essersi stufati da un pezzo di trovarsi alle prese sempre e comunque con una replica (non troppo riuscita, peraltro) di un qualcosa uscito ormai nel 2006. Ma questo, probabilmente, è per gli autori un dettaglio non troppo rilevante.

Appare quindi inspiegabile come una serie, con tali limitazioni, possa essere arrivata alla quinta stagione. Tanto per rimanere in Italia, persino "banali" fiction casalinghe come Un medico in famiglia (che non vantano sceneggiatori altisonanti come in Coliandro) offrono una trasformazione dei personaggi, un aggiornamento di situazioni, dinamiche e dialoghi. Guardate il primo episodio della serie di Nonno Libero, poi un episodio a metà della lunghissima vita della fiction, poi l'ultima puntata andata in onda: potrete verificare con estrema facilità che i personaggi mostrano un mutamento, non solo dal punto di vista anagrafico ma nella sostanza della loro personalità, com'è giusto che sia. Il loro carattere è mutato, i loro atteggiamenti rispecchiano una trasformazione avvenuta nel frattempo. E questo è un requisito fondamentale se si vuole raccontare una storia che appaia plausibile.


Invece, guardando le ultime serie di Coliandro si percepisce di essere intrappolati nel tempo e nello spazio, un po' come in Ricomincio da capo, dove uno sventurato Bill Murray è costretto a rivivere ciclicamente lo stesso identico giorno ("il Giorno della Marmotta"), nello stesso identico modo.
A poco serve l'impegno dei validi attori (Morelli in primis ma anche Paolo Sassanelli, Alessandro Rossi e Massimiliano Bruno): è la struttura che, purtroppo, fa acqua.
La regia dei Manetti Bros sembra essere rivolta alle novità anche se a volte questa propensione non riesce a condizionare in meglio la resa complessiva, si guardi ad esempio l'uso smodato nell'ultima serie dei droni (ora tanto di moda) i quali però ci offrono inquadrature a volo d'uccello dall'inizio alla fine, senza un vero e proprio significato drammatico. Nell'ultima serie, le situazioni descritte richiamano complessivamente un poderoso cartoon, ma la regia non sembra essere sintonizzata con questo spirito, infatti la fotografia, le inquadrature, il montaggio sia video che sonoro non tengono il passo e a volte sono slegati dal contesto narrativo. 

Insomma, sarebbe stato meglio se ci si fosse fermati a quella prima serie del 2006 così innovativa ed originale, regalando alla storia della televisione italiana una piccola ma soprattutto rarissima perla?

In ogni caso, per la sesta serie (della quale già si vocifera) la produzione dovrà fare i conti con una trasformazione nella forma e nei contenuti se vorrà evitare un definitivo tracollo narrativo. È chiaro, anche questa nuova stagione troverà nuovi fan appassionati ed entusiasti, ma potrebbe rischiare di allontanare ancor di più la "vecchia guardia" che vorrebbe un Coliandro nuovo e più umano, non una macchietta autoreferenziale che in dieci anni non ha modificato di una virgola la sua personalità (e i suoi vestiti).

(testo sotto licenza CreativeCommons