mercoledì 9 marzo 2016

L'ispettore Coliandro e l'arte dell'esser sempre uguali a se stessi.

Tutto ebbe inizio nel lontano 2006, quando sulle frequenze di Rai2 irruppe un giovane poliziotto fuori dal comune, lontano dagli ordinari stereotipi del crime drama; un ragazzo piuttosto sboccato ed imbranato, imbevuto di luoghi comuni e di cinema poliziesco, relegato a mansioni tutt'altro che d'azione o investigative il quale però risultava subito simpaticissimo e, malgrado le prese in giro dei colleghi "più intelligenti", riusciva sempre ad arrivare in fondo a complesse indagini nelle quali si trovava involontariamente coinvolto, il tutto sullo sfondo della Bologna di oggi.

Era con Il giorno del lupo, primo episodio della saga de L'ispettore Coliandro, che aveva inizio questa originale parodia di un uomo d'azione alla Callahan ma improbabile, fanfarone e maldestro, rivelando da una parte il talento del protagonista, Giampaolo Morelli, dall'altra la grande capacità narrativa di uno dei principali protagonisti della cultura italiana di oggi, Carlo Lucarelli, alla cui penna si deve la genesi del personaggio. E poi, chiaramente, la regia dei Manetti Bros, i quali riescono a dipingere in maniera convincente questo divertente ed anomalo poliziesco, fra rimandi al cinema di azione degli anni '70 e al poliziottesco italiano. 

 

Coliandro si ritrova coinvolto in ogni episodio in casi complessi e pericolosi, che cerca di affrontare scartabellando nel suo archivio di battute e di citazioni cinematografiche ("Coraggio, fatti ammazzare" è la sua preferita), ma, almeno sulle prime, è ben lungi dal mostrare la freddezza e il coraggio di un Eastwood alla Dirty Harry, piuttosto finisce spesso per sembrare il bambino che non ha calcolato le conseguenze mortali del suo gioco preferito. In ogni puntata vi è una protagonista femminile diversa, in qualche modo implicata nell'indagine, e che l'Ispettore tenta goffamente di proteggere o sfidare, rimanendo poi inevitabilmente implicato in una relazione sentimentale.

Fin qui, i presupposti per una serie interessante e di successo ci sono tutti. Le prime puntate di Coliandro, infatti, sono ben congegnate, divertenti e scorrevoli. La regia è all'altezza, il montaggio agile e veloce, le musiche strizzano l'occhio al funk della blaxploitation alla Shaft e Foxy Brown ed i camei sono divertenti ed inaspettati (Lucarelli, Neffa, Luca Carboni, solo per citarne alcuni). Ed in tutto ciò la città di Bologna si dimostra estremamente adatta alla narrazione.

Ma già dalla seconda-terza serie qualcosa inizia ad andare storto. Eppure gli ingredienti sono gli stessi, gli attori sono in gamba e collaudati, le storie ben strutturate. Cosa succede?
Già, il problema è proprio questo: gli ingredienti sono esattamente gli stessi.
Nessuna evoluzione del protagonista, sceneggiature sì diversificate ma con dinamiche ed interazione fra i personaggi pressoché identiche. Le storie, e a cascata la regia, iniziano non più a parlare al pubblico ma si incartano su se stesse, incapaci di sfuggire alla piaga della reiterazione.


Ora, tutte le serie di successo hanno fondato la loro credibilità sull'evoluzione dei personaggi, su una trasformazione che nel corso delle diverse puntate porta il protagonista (prima di tutti) ad essere soggetto ad un mutamento. Questa, più che essere caratteristica peculiare delle serie tv, è un meccanismo narrativo piuttosto universale che consente di produrre storie interessanti e credibili, siano esse serie tv, romanzi o film. Ma quando il personaggio, le ambientazioni,  rimangono immutate, ad ogni puntata si assiste ad un replay di qualcosa di già visto. 

Stiamo parlando, prima di tutto, di un problema nelle storie: forse gli sceneggiatori - fra cui lo stesso Lucarelli - hanno puntato sul principio "squadra che vince non si cambia", quindi a partire dal successo iniziale hanno deciso di "vincere facile" e di ripetere dinamiche e situazioni al fine di assicurarsi una riuscita sicura. Sicuramente legittimo. Ma più che un pubblico di affezionati, un simile approccio garantisce un pubblico sempre nuovo di persone che ad ogni serie scoprono il personaggio per la prima volta e ne rimangono piacevolmente sorpresi. Gli "affezionati" e chi ha scoperto il personaggio già all'uscita della prima serie (fra cui chi scrive) potrebbero essersi stufati da un pezzo di trovarsi alle prese sempre e comunque con una replica (non troppo riuscita, peraltro) di un qualcosa uscito ormai nel 2006. Ma questo, probabilmente, è per gli autori un dettaglio non troppo rilevante.

Appare quindi inspiegabile come una serie, con tali limitazioni, possa essere arrivata alla quinta stagione. Tanto per rimanere in Italia, persino "banali" fiction casalinghe come Un medico in famiglia (che non vantano sceneggiatori altisonanti come in Coliandro) offrono una trasformazione dei personaggi, un aggiornamento di situazioni, dinamiche e dialoghi. Guardate il primo episodio della serie di Nonno Libero, poi un episodio a metà della lunghissima vita della fiction, poi l'ultima puntata andata in onda: potrete verificare con estrema facilità che i personaggi mostrano un mutamento, non solo dal punto di vista anagrafico ma nella sostanza della loro personalità, com'è giusto che sia. Il loro carattere è mutato, i loro atteggiamenti rispecchiano una trasformazione avvenuta nel frattempo. E questo è un requisito fondamentale se si vuole raccontare una storia che appaia plausibile.


Invece, guardando le ultime serie di Coliandro si percepisce di essere intrappolati nel tempo e nello spazio, un po' come in Ricomincio da capo, dove uno sventurato Bill Murray è costretto a rivivere ciclicamente lo stesso identico giorno ("il Giorno della Marmotta"), nello stesso identico modo.
A poco serve l'impegno dei validi attori (Morelli in primis ma anche Paolo Sassanelli, Alessandro Rossi e Massimiliano Bruno): è la struttura che, purtroppo, fa acqua.
La regia dei Manetti Bros sembra essere rivolta alle novità anche se a volte questa propensione non riesce a condizionare in meglio la resa complessiva, si guardi ad esempio l'uso smodato nell'ultima serie dei droni (ora tanto di moda) i quali però ci offrono inquadrature a volo d'uccello dall'inizio alla fine, senza un vero e proprio significato drammatico. Nell'ultima serie, le situazioni descritte richiamano complessivamente un poderoso cartoon, ma la regia non sembra essere sintonizzata con questo spirito, infatti la fotografia, le inquadrature, il montaggio sia video che sonoro non tengono il passo e a volte sono slegati dal contesto narrativo. 

Insomma, sarebbe stato meglio se ci si fosse fermati a quella prima serie del 2006 così innovativa ed originale, regalando alla storia della televisione italiana una piccola ma soprattutto rarissima perla?

In ogni caso, per la sesta serie (della quale già si vocifera) la produzione dovrà fare i conti con una trasformazione nella forma e nei contenuti se vorrà evitare un definitivo tracollo narrativo. È chiaro, anche questa nuova stagione troverà nuovi fan appassionati ed entusiasti, ma potrebbe rischiare di allontanare ancor di più la "vecchia guardia" che vorrebbe un Coliandro nuovo e più umano, non una macchietta autoreferenziale che in dieci anni non ha modificato di una virgola la sua personalità (e i suoi vestiti).

(testo sotto licenza CreativeCommons

lunedì 29 febbraio 2016

Oscar 2016: trionfi, conferme e sconfitte agli Academy Awards

Finalmente il momento è giunto: la serata degli Academy Awards 2016, presentata quest'anno da Chris Rock al Dolby Theatre di Los Angeles, ha decretato i vincitori di questa edizione ricca di film di grande qualità ed importanza. In molti hanno portato a casa l'ambita statuetta ma per tanti altri le porte degli Oscar, almeno per quest'anno, non si sono spalancate.


Le due grandi vittorie "annunciate" sono senza dubbio state quelle di Leonardo Di Caprio come miglior attore protagonista per The Revenant di Inarritu (approfondisci qui) ed Ennio Morricone come migliore colonna sonora per The Hateful Eight di Tarantino (approfondisci qui). Due nomi italiani per due storiche esclusioni dagli Oscar che molto hanno pesato negli ultimi anni, tanto da divenire assolutamente inspiegabili. 
Morricone si era dovuto accontentare di un Oscar onorario alla carriera nell'edizione 2007 mentre Di Caprio aveva sempre mancato la statuetta.
Sono quindi, quelle di ieri sera, due vittorie che aleggiavano nell'aria già da diversi mesi e tutto il vociare sulle "ingiustizie" subite dai due hanno seriamente rischiato di condizionare l'imparzialità dell'assegnazione del premio, nonostante le performance dei due artisti, nei loro rispettivi campi, siano assolutamente rimarchevoli e "da Oscar".


L'aurea statuetta per il miglior film è andata quest'anno ad un ottimo film d'inchiesta, quello Spotlight che viene già considerato uno dei più grandi film d'inchiesta dai tempi di Tutti gli uomini del Presidente e che si aggiudica anche il premio per la migliore sceneggiatura originale.
La migliore sceneggiatura non originale è invece stata assegnata a The Big Short (La grande scommessa), pellicola prodotta da Brad Pitt, sulla crisi finanziaria del 2007.

La miglior regia è per Alejandro González Iñárritu, per la magistrale direzione di The Revenant, film che, assieme al menzionato attore protagonista a Di Caprio ed al premio per la migliore fotografia porta a casa in totale tre statuette. 
La miglior attrice protagonista, nonostante la presenza importante di altre candidature come Cate Blanchett per Carol, si è rivelata essere Brie Larson, per Room, interessante e claustrofobica pellicola che vedremo in uscita in Italia il 3 marzo.

Mark Rylance si aggiudica invece il premio come miglior attore non protagonista per la sua grande intepretazione nel thriller spionistico Bridge of Spies di Steven Spielberg, film nel quale l'attore inglese contende la scena a Tom Hanks. Anche qui, gli altri importanti compagni di candidatura, in primis Tom Hardy in The Revenant, restano a bocca asciutta.

Pieno di statuette per Mad Max: Fury Road, quarto capitolo della saga di Mad Max, che si aggiudica ben 6 premi su 10 candidature: miglior scenografia, miglior montaggio, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro, miglior trucco e acconciatura e migliori costumi.

Il miglior film straniero è quest'anno per Il figlio di Saul, film ungherese diretto da László Nemes, mentre il miglior film d'animazione è Inside Out, che vince su rivali come Anomalisa di Charlie Kaufman. 

Infine, l'Oscar come miglior documentario va ad Amy, sulla vita della cantante britannica scomparsa prematuramente nel 2011.


Jurij Nascimben
(testo sotto licenza CreativeCommons

lunedì 15 febbraio 2016

"Joy": felicità e intraprendenza nell'era delle televendite

Joy (Jennifer Lawrence), sullo sfondo degli Stati Uniti di trenta o quaranta anni fa, è una ragazzina dotata di un talento particolare e tutto suo: inventa cose. Nonostante, da piccola, la nonna le abbia predetto un futuro luminosissimo denso di successi e soddisfazioni, la vita sembra non sorridere a questa Cenerentola dell'epoca delle televendite: deve occuparsi dei figli, di un ex marito che inspiegabilmente vive nella sua cantina di casa e che sogna un futuro da cantante, della mamma maniaca di soap-opera e della ormai anziana nonna. Come se non bastasse, nella sua vita piomba improvvisamente il padre, anch'egli separato, che Joy sistema nel seminterrato a convivere con l'ex marito, dopo aver accuratamente tracciato i confini della stanza con della carta igienica. Su questo quadretto grava la presenza della "perfida" sorellastra, che sembra voler ostacolare ogni tentativo che la povera Joy compie, giorno dopo giorno, di emanciparsi da questo stato precario, per spiccare il volo della realizzazione personale.



In questa casa dove la famiglia, anche se in una ragnatela di relazioni piuttosto anomale, è riunita ed attua una convivenza in fin dei conti positiva, Joy si occupa di tutto, addirittura di riparare i guasti idraulici. Finché un bel giorno, esausta, la ragazza decide di dare una svolta alla sua vita: battere fino in fondo la strada della creatività, contro tutto e tutti, tentando di mettere sul mercato una delle sue originalissime invenzioni. In un baleno Joy si ritrova a dover fare i conti con avvocati, brevetti e linee di produzione in fabbrica, tracciando una parabola che, tra alti e bassi, la porterà a cadere e a rialzarsi più volte, ma senza mai perdersi d'animo.

Se Sergio Leone aveva detto di Clint Eastwood (ai tempi di "Per un pugno di dollari") che aveva solo due espressioni: "con il cappello e senza il cappello", qualcuno oggi, ispirandosi al grande visionario dello spaghetti-western, potrebbe arrivare alla conclusione, parlando di Jennifer Lawrence, che possiede una sola espressione. Punto.
Un po' come quando il duo Verdone-Montesano, ne "I due carabinieri", si cimentava nello sguardo "pronto, acuto e profondo", ottenendo invariabilmente la stessa improbabile faccia comica.

A parte le battute, guardando la sua performance in Joy, Jennifer Lawrence pur con grandissimo impegno e dedizione, sembra essere stata catapultata di forza sul set hollywodiano da un mondo diverso da quello del cinema, forse da quello dei videoclip, delle moderne sit-com o dei balletti di titanici concerti pop.

In Joy la giovane Jennifer Lawrence ha sulle spalle tutto il peso di un film interessante, ispirato a fatti realmente accaduti. Anche se la trama è tutt'altro che ricercata ed originale, la pellicola avrebbe dato di per sè alla protagonista degli ottimi spunti interpretativi, tutt'altro che banali. Ma forse ci sarebbe voluta la forza di un'attrice con un pizzico di esperienza in più, per esplorare le diverse fasi della vita tutt'altro che monotona della protagonista?



Non spendiamo molte parole per Robert De Niro (sì, avete capito bene, De Niro, sì, lo stesso di Taxi Driver e Toro Scatenato), nella parte del padre di Joy che coltiva nuove relazioni con un servizio telefonico di appuntamenti ante litteram. De Niro ormai sembra essersi votato ad essere un "accessorio". Ormai ampiamente collaudata l'espressione sopra le righe del papà comico ma premuroso (messa a punto nel ciclo di Ti presento...), De Niro imposta pigramente il pilota automatico facendo sfoggio di due o tre espressioni sicure e porta a casa la pagnotta. Onestamente. 
Nulla da eccepire, se non che il De Niro che ricordavamo probabilmente è un omonimo misteriosamente scomparso una ventina d'anni fa.

Isabella Rossellini veste invece i panni di una facoltosa signora italiana la quale, oltre a diventare la compagna del padre di Joy grazie agli incontri telefonici, diverrà la principale finanziatrice della ragazza. La figlia di Ingrid Bergman e del padre del neorealismo sembra a suo completo agio con la lingua inglese e la sua parte risulta una delle più convincenti, soprattutto perché guardando il film in lingua originale non si è costretti a sopportare per due ore il suo italiano ucciso da un marcatissimo accento francese, anche se, per questa volta, sembra che la Rossellini (nella versione italiana) sia stata doppiata da Rossella Izzo. Grazie al cielo.

Fanno da contorno un bravo Bradley Cooper, manager di successo che, di fatto, porta Joy al successo, un convincente Edgar Ramirez, l'ex marito di Joy che improvvisa una sala prove nella cantina di casa, sognando un futuro da cantante di successo; Dasha Polanco, nella parte dell'amica del cuore di Joy, che sosterrà la ragazza nelle sue imprese ed infine Elisabeth Röhm, nei panni della sorellastra "amore e odio".

Tutto sommato, il film risulta molto gradevole. Nonostante tutto potremmo dire che per il regista David O. Russell la prova è quasi del tutto riuscita, nel senso che, a parte tutte le critiche possibili ed immaginabili che si possono fare a recitazione e direzione, il film scorre ed anche abbastanza bene, regalando anche siparietti piuttosto divertenti, come la rievocazione delle soap degli anni '70 o la mamma che si invaghisce di un giovane ed affascinante idraulico haitiano.

Certo è che per Jennifer Lawrence sarà difficile presentarsi agli Oscar 2016 contro la Cate Blanchett di Carol. Non c'è sfida, ovviamente. E chi ha visto Carol sa di cosa parlo. Ma Lawrence avrà comunque la soddisfazione di un'ulteriore nomination (la terza, per la precisione) ed un Oscar già ottenuto nel 2013. Che già di per sè non è poco, alla sua età.
Anche perché se dagli anni '60 il grande Clint, con solo "due espressioni" è riuscito a costruire una carriera straordinaria di attore e regista, l'attrice ventiseienne non può che ben sperare per il suo futuro. Non le resta che mettere a punto la seconda espressione ed il gioco è fatto. 

Scherzi a parte, in bocca al lupo!


Jurij Nascimben
(testo sotto licenza CreativeCommons

lunedì 8 febbraio 2016

The Revenant, Di Caprio e la corsa agli Oscar

Proprio ieri Alejandro G. Iñárritu, regista del colossal The Revenant si è aggiudicato il DGA Award, premio assegnato dal sindacato dei registi di Hollywood, ed il quale solitamente anticipa l'esito delle candidature agli Oscar 2016. Di conseguenza, lo staff di The Revenant sta già festeggiando questo grande risultato.




Ma intorno al film, già da qualche mese, si è radunato un agguerrito gruppo di fan che, esaltando la notevole performance del protagonista indiscusso Leonardo Di Caprio, vorrebbe finalmente far portare a casa all'ex Jack Dawson di Titanic, l'aurea statuetta. Sì perché già da qualche anno è diventato un vero e proprio tormentone "Quanto è bravo Di Caprio! Possibile che non abbia ancora vinto l'Oscar?" 

The Revenant è un film importante e sembra confezionato apposta per l'Oscar a Di Caprio, un po' come un compito di ammissione all'interno del quale si fanno i salti mortali per dimostrare di essere all'altezza. Per la verità, Di Caprio non aveva necessità di dimostrare alcunché: le sue interpretazioni assolutamente sopra la media (soprattutto per un attore della sua età) parlano per lui. Senza scomodare film di dieci o vent'anni fa, basti prendere a campione la sua recentissima collaborazione con Martin Scorsese, che si è concretizzata in The wolf of Wall Street (2014), dove Di Caprio ci regala una performance drammatica straordinaria, da vero mattatore del grande schermo.

Ciononostante, ben dopo ben 5 candidature agli Academy Awards, il protagonista di Gangs of New York è sempre e comunque rimasto a bocca asciutta. Certo, nel corso della carriera si è aggiudicato ben tre Golden Globe ed un numero incalcolabile di premi minori, ma non gli è stato possibile scorgere la statuetta per eccellenza se non con il binocolo.

Un vero e proprio ciclone mediatico ma soprattutto un moto di popolo rischia quindi di influenzare non poco l'esito della candidatura dell'attore di origine italiana nella categoria "Miglior attore protagonista" alla vigilia di questi Academy Awards 2016.


La performance che Di Caprio offre in The Revenant è convincente. Il film è in larghissima parte incentrato sul suo personaggio, impegnato in un soliloquio che richiama i tratti di Balla coi lupiDersu Uzala e di Into the Wild. 
Compito tutt'altro che semplice, quindi, quello di sostenere sulle proprie spalle una parte significativa di una pellicola da 156 minuti, fatta per il 99,9% di esterni, girata a temperature polari in paesaggi impervi ma straordinari.

The Revenant è una storia difficile ed amara - ispirata a fatti realmente accaduti - e si svolge nell'agone di un Nord America dei primi dell'800, dove cacciatori e commercianti di pellami di origine europea e tribù di nativi americani, di fatto vivono quotidianamente un "tutti contro tutti" che li vede scontrarsi con violenza e ferocia all'interno di un contesto dove regna opportunismo e prevaricazione.

È sullo sfondo di una natura che non rinuncia al suo splendore ma che è al tempo stesso ostile, che il protagonista Hugh Glass (Di Caprio), esperto trapper e cacciatore di pelli, compie il suo percorso in un certo senso iniziatico, trovandosi a dover affrontare, in solitudine e mosso da sete di vendetta, delle prove inaudite, in una classica dinamica di evoluzione interiore che lo porterà a comprendere la propria essenza.


Il regista messicano Iñárritu dirige questa sinfonia naturalistica con sapienza, evitando la retorica autoreferenziale ma anche la tentazione meramente spettacolaristica. La recitazione è calibrata e giusta, così come gli episodi più forti e violenti, che non prendono mai il sopravvento. Gli effetti speciali sono utilizzati con intelligenza anche se a tratti le "aggiunte" fatte al computer appaiono troppo evidenti e stridenti, rivelando la presenza estranea dell'animazione. In ogni caso, è un dettaglio piuttosto irrilevante, nel contesto di una grandiosa e triste avventura che ci regala immagini di grande potenza visuale.


Di Caprio è pienamente consapevole di essere il fulcro del film - anche se il bravissimo antagonista Tom Hardy gli contende la scena - ma riesce a calibrare la recitazione in modo tale da inserirsi con equilibrio all'interno di un contesto scenico e drammatico molto impegnativo.


Staremo a vedere se una prova del genere frutterà a Di Caprio, finalmente, l'Oscar come miglior attore protagonista; in ogni caso The Revenant rappresenta una delle sue migliori prove e sicuramente uno dei film più interessanti della stagione.





venerdì 5 febbraio 2016

MACBETH: ambizione e potere in una nuova trasposizione cinematografica

Nel panorama di questi ultimi mesi di uscite cinematografiche (peraltro in molti casi decisamente convincenti) un posto di prim'ordine spetta sicuramente a MACBETH (di Justin Kurzel, prodotto nel 2015), cronologicamente l'ultimo adattamento cinematografico della celebre tragedia di William Shakespeare, che vide la luce nel primo decennio del '600.



A più di quattrocento anni di distanza le dinamiche e i personaggi partoriti dalla mente del grande drammaturgo inglese continuano a far presa sul mondo del 
cinema. Non si contano le versioni per il grande schermo delle opere del più celebre cittadino di Stratford-upon-Avon. In particolare Macbeth, a partire dai primi del '900, ha ispirato più di venti venti fra performance e adattamenti, sia per il cinema che per la TV. 

Ma perché tanto successo? 

Sicuramente le opere di Shakespeare sono particolarmente adatte per essere ripensate e riproposte in contesti molto diversi. Rappresentano infatti, da sempre, una inesauribile fonte di ispirazione per sceneggiatori ed autori, i quali in quelle righe riescono ad individuare costantemente elementi di attualità, proprio perché quelle pagine parlano della stessa condizione umana, di conflitti e passioni, in generale di storie in cui donne e uomini di ogni epoca possono facilmente rispecchiarsi. 

La semplicità è, probabilmente, il traguardo più difficile da raggiungere, in qualsiasi ambito artistico. Ecco perché le storie di Shakespeare, per apparire ancora oggi così naturali ed attuali, fanno affidamento su poderose impalcature drammaturgiche, su un formidabile studio psicologico e in un certo senso sociologico dei personaggi e delle ambientazioni, il quale consente di scavare sempre più e arrivando in profondità, fino ad isolare e a portare alla luce l'essenza di relazioni, pensieri, comportamenti.

La storia che Shakespeare ci racconta in Macbeth, da questo punto di vista, rappresenta una metafora perfetta del rapporto controverso fra uomo e potere; fra volontà ed ambizione; dei conflitti che popolano la mente di individui che si trovano a fare i conti con una trasformazione sostanziale della propria esistenza, a causa della volontà che conduce verso i vertici del dominio. A tutti i costi, anche se il prezzo da pagare è estremamente alto, anche se occorre lasciarsi dietro montagne di cadaveri, anche se si è condannati a fare i conti con fantasmi interiori che dilaniano l'anima.


È nel contesto bellico e politico della Scozia dell'anno Mille che muove i suoi passi Macbeth (intepretato da Michael Fassbender), generale ambizioso al servizio del Re Duncan (i cui panni sono vestiti da David Thewlis). Macbeth è circondato da valorosi amici, con i quali condivide le glorie e gli abbrutimenti della battaglia, ma è soprattutto affiancato dalla influente consorte, Lady Macbeth (Marillon Cotillard). Il protagonista, non appena gli si presenterà l'occasione, intraprenderà un sanguinoso e cruento cammino che lo porterà a scalare rapidamente la gerarchia nobiliare, fino ad essere incoronato Re. Tutto ciò non sarà indolore per il guerriero Macbeth, il quale si troverà ben presto condannato a fronteggiare, ma stavolta da solo, il più grande nemico nel quale si sia mai imbattuto: se stesso.

La storia che sta dietro al Macbeth di Shakespeare ha un fondamento 
storico, che il regista Justin Kurzel, nella sua versione per il grande schermo sembra non voler assolutamente ignorare. Soprattutto quando ci mostra un medioevo nord-europeo che si dipana lungo suggestivi paesaggi che sembrano ai confini del mondo (il film è stato girato fra Scozia ed Inghilterra), dove l'uomo è ancora un ospite della natura (più o meno gradito, s'intende) e non il contrario. Oppure quando realizza degli interni molto curati, che siano saloni dove si banchetta o chiese addobbate per l'incoronazione.



Fassbender è gigantesco e conferma la sua impressionante attitudine drammatica dopo performance come 12 anni schiavo Shame. Marillon Cotillard, a sua volta, incarna in modo molto convincente la persuasiva moglie del Re Macbeth. Inoltre, una "squadra" di validi attori non protagonisti circonda e supporta la coppia: fra tutti il navigato David Thewlis (Re Duncan), ma anche Sean Harris (Macduff) e Paddy Considine (Banquo). 

Il regista 
Kurzel dipinge magistralmente lo scenario della tragedia, con scene di guerra convincenti e richiami ben congegnati alle pieghe soprannaturali della storia (come l'importante intervento delle Tre Streghe). Il tutto esaltato da un'ottima fotografia e un montaggio veramente all'altezza. In definitiva parliamo di un film moderno che unisce la vocazione essenzialmente teatrale a tecniche registiche suggestive e al passo coi tempi.

Va da sè, che il modo migliore per apprezzare pellicole di questo genere è sicuramente quello di confrontarsi con la 
versione originale, grazie alla quale è possibile apprezzare non solo le performance di validi intepreti ma anche un inglese antico e interessantissimo, il quale ci riporta direttamente alle sonorità della tragedia così come Shakespeare l'ha concepita. Questo ci consente di evitare di fare i conti con adattamenti dei dialoghi e sovrapposizioni vocali non di rado discutibili.

Jurij Nascimben
(Licenza CreativeCommons

giovedì 4 febbraio 2016

Ettore Scola ovvero il Cinema italiano

I ricordi, le celebrazioni, vanno ormai scemando e, come ogni altra notizia "fresca" che per un po' riempie il web e la carta stampata, anche l'evento della scomparsa del regista Ettore Scola sta andando ad ingrossare gli archivi di giornali e siti web. 


Ma ciononostante, Ettore Scola, come molti sanno, è diventato cruciale per la cultura italiana molto prima che se ne parlasse in corrispondenza della sua morte, al contrario di personaggi che raggiungono la notorietà pressoché con la loro scomparsa.


Scola, in un certo senso, era il cinema italiano
In particolare negli ultimi anni era di fatto uno degli ultimissimi testimoni di un periodo di splendore assoluto, che va grosso modo dal dopoguerra ai primi anni '80, nel corso del quale il miglior cinema italiano ha tracciato la sua parabola di vita.

Fino a quel 19 gennaio 2016, all'infuori di Scola non era più in vita alcun regista o sceneggiatore fra i più importanti e rappresentativi di quell'epoca incredibile, fatta eccezione per pochissimi nomi (ad esempio Lina Wertmuller). 

Per il resto, scomparsi i Monicelli, Risi, De Sica, Fellini, Germi, Leone, Petri, Rosi ma anche Zavattini, Age e Scarpelli, De Bernardi, Benvenuti, Cecchi D'Amico e tanti tanti altri, un'intera generazione di cineasti nati prevalentemente negli anni '20 e '30 del secolo scorso, se n'è andata definitivamente e per motivi anagrafici non è più fisicamente presente nel panorama culturale italiano. Lo stesso dicasi, ovviamente, per i grandi interpreti (Gassman, Sordi, Tognazzi, Manfredi, Magnani ecc.).

Rimangono certamente le opere di ognuno di loro, i film, le sceneggiature e le interpretazioni ma svanisce definitivamente la possibilità di vedere ancora sullo schermo qualcosa del genere. 
Se non altro perché il cinema italiano, soprattutto a causa dei mutamenti culturali e sociali che hanno interessato la società italiana negli ultimi trent'anni, ora è altra cosa, se paragonato ai tratti distintivi che la "vecchia scuola" aveva tracciato e messo a punto. Per questo sarebbe utopistico ed anche ingenuo pensare ad un revival di quel modo di fare cinema, a firma dei cineasti di oggi. 

Lo avevano capito in molti, già alla metà degli anni '70, che la commedia (nella sua declinazione "all'italiana") - ritenuta da Monicelli lo spettacolo italiano per eccellenza - stava vivendo il suo declino e che le forme della messinscena in Italia stavano subendo una profonda mutazione genetica. 
Ne sono prova pellicole quali Amici Miei  (1975) e Un borghese piccolo piccolo (1977), entrambe di Mario Monicelli, che rappresentano in un certo senso un "manuale" delle trasformazioni in atto in quel periodo.

Negli stessi anni (siamo nel 1974), Ettore Scola firma uno dei suoi capolavori, C'eravamo tanto amati, che si inquadra proprio in quel filone stilistico che mette di forza la commedia all'italiana davanti allo specchio spingendola ad una riflessione retrospettiva ed esistenziale intorno al senso della sua stessa vita e della società che l'ha generata.

Quando firma il suo capolavoro interpretato dal trio Gassman-Manfredi-Satta Flores, Scola è già un regista e sceneggiatore affermato: ha già al suo attivo, infatti, perle come Permette? Rocco PapaleoLa più bella serata della mia vitaRiusciranno i nostri eroi...Il Commissario Pepe ma probabilmente è proprio C'eravamo tanto amati a segnare una svolta nella sua carriera. Lo stile di Scola è, infatti, maturo e definitivamente riconoscibile ed ha già quel "qualcosa" di personale ed originale che nessun'altro ha. 

Scola inizia la sua carriera circa vent'anni prima, lavorando nel cinema prevalentemente come sceneggiatore. Infatti, anche se non è noto ai più, se si scorrono i titoli di testa di moltissimi dei capolavori della commedia italiana degli anni '50 e '60, è possibile individuare il suo nome fra gli autori e sceneggiatori. 
Negli anni '50 Scola è fra gli autori di commedie come Un americano a RomaAccadde al commissariato e Il conte Max, così come di celebri dialoghi che hanno consacrato grandi volti della commedia italiana come quello di Totò.
Inoltre, se negli anni '60 gli onori erano per registi del calibro di Dino Risi, era anche grazie a sceneggiature che portano la firma di Ettore Scola. Basti pensare a Il mattatoreI mostriIl sorpassoI complessi.

Ma quando, con Se permettete parliamo di donne (1964) Scola decide di mettersi "in proprio" intraprendendo anche la carriera registica, un nuovo ed originale stile cinematografico, che mescola commedia, neorealismo, grottesco, dramma inizia a prendere forma, distinguendosi nel tempo da quello di altre firme importanti del periodo (in primis Monicelli e Risi). 
Certo, ci vorrà qualche anno prima di raggiungere le vette dei suoi capolavori più noti, ma ormai la strada era aperta per i fasti degli anni '70 di Dramma della gelosia, nel quale il trittico Vitti-Mastroianni-Giannini funziona alla perfezione, del già citato C'eravamo tanto amati (dedicato al maestro Vittorio De Sica, con la cui filmografia Scola traccia una continuità ideale). E poi Brutti sporchi e cattivi, una delle più grandi e "maledette" interpretazioni  di Nino Manfredi. Il gigantesco ed intenso Una giornata particolare I nuovi mostri, chiudono il decennio all'insegna di storie ed interpretazioni di altissimo livello, rispettivamente grazie alle performance della coppia Loren-Mastroianni e del trio Gassman-Tognazzi-Sordi.

Quel "qualcosa" di personale ed originale di cui parlavamo porterà, negli anni '80-'90, ai corali e complessi La famiglia e La terrazza ma anche alle perle in costume Passione d'amore, Il mondo nuovo e  Il viaggio di Capitan Fracassa, nei quali Scola dimostra di muoversi con estrema agilità e sapienza anche in ambientazioni storiche.
La delicatezza e l'intimismo di Che ora è (nel quale Scola costruisce magistralmente l'interazione fra due straordinari Troisi e Mastroianni)  fa il paio con il poco conosciuto La cena, nel quale il regista riesce a riunire un cast impressionante, rendendolo forse l'unico film italiano dove recitano insieme, in una performance più unica che rara, Vittorio Gassman, Giancarlo Giannini, Stefania Sandrelli, Riccardo Garrone, Fanny Ardant, Eros Pagni, Rolando Ravello, Antonio Catania, Adalberto Maria Merli, Giorgio Tirabassi, Giorgio Colangeli, Daniela Poggi e tanti altri.

La cinematografia di Scola è allo stesso tempo intellettuale e divertente, raffinata e popolare, in sostanza incarna una sintesi inedita degli elementi drammaturgici e stilistici che il cinema italiano aveva portato a maturazione dal dopoguerra, soprattutto attraverso i due grandi filoni del neorealismo da una parte e della grande commedia dall'altra, grazie ai quali Scola modula la sua poetica originale e personalissima.


Egli riesce infatti a coniugare il tempo comico con l'asprezza del neorealismo, il grottesco, la teatralità e l'umorismo della vita di tutti i giorni con le grandi idealità, il tutto nel solco di una sottile malinconia sullo sfondo, dove il tempo che scorre inesorabile spinge a riflessioni impellenti ed esistenziali (clicca per approfondire).
Scola, Troisi e Mastroianni sul set di "Che ora è"
Il suo è quindi anche un cinema del "quotidiano" con una vocazione fortemente intimista, che però non scade mai nell'autocompiacimento e nello snobismo di un certo cinema che agli esperti, inspiegabilmente, piace definire "d'autore". 
È questa la forza di Scola, quella di far funzionare la storia simultaneamente su piani drammatici diversi ma fruibili con la stessa efficacia, caratteristica propria dei grandi capolavori dell'arte.

Il viaggio artistico di Scola ha avuto il suo epilogo appena tre anni fa con Che strano chiamarsi Federico (2013), un omaggio sincero ed ironico a Federico Fellini, amico di sempre con il quale Ettore Scola ha condiviso praticamente ogni istante della sua lunghissima carriera, fin dai tempi del Marc'Aurelio, giornale umoristico al quale il regista romano approderà ancora giovanissimo negli anni '40 ed intorno al quale già si raccoglievano grandi nomi del cinema e dell'umorismo italiano, fra cui appunto lo stesso Fellini. 
Era nell'aria che dopo dieci anni di silenzio - in un certo senso forzato - trascorsi dal suo ultimo Gente di Roma (2003), Scola fosse tornato dietro la macchina da presa per raccontare un'amicizia speciale ma anche per realizzare, per l'ultima volta, una sorta di ricongiungimento ideale con i suoi amici e collaboratori (oltre a Fellini, un ruolo centrale spetta a Marcello Mastroianni), nonché con il mondo caleidoscopico fatto di storie, immagini e suoni che ha caratterizzato la sua esistenza. 



Il tutto ha preso forma proprio in quello stesso Teatro 5 di Cinecittà, divenuto leggendario proprio grazie ai film che lì vi girò il suo amico Federico. Proprio grazie a Che strano chiamarsi Federico, quel teatro è tornato a vivere, per un po', e forse per l'ultima volta, prima di riprendere la sua attuale funzione, ovvero quella di ospitare discutibili produzioni televisive nostrane.

Insomma, non resta che scorrere la sconfinata filmografia di Ettore Scola composta da ben 40 titoli e selezionarne anche solo uno, per (ri)vedere ed apprezzare la sua cinematografia e per far rivivere un gigante della cultura italiana di sempre.



Filmografia di Ettore Scola